L’imminente conversione in legge del D.L. n. 115/2022 pone nuovamente al centro del dibattito scolastico la questione di quel che resta del docente esperto previsto nell’originaria stesura della norma.
Una prima riflessione, immediata, si impone: ma incuteva tanta paura una disposizione che, seppure non particolarmente coraggiosa, lasciava intravedere una forma embrionale di carriera dei docenti? Evidentemente sì, se si è voluto intervenire su di essa affinché la disciplina di dettaglio fosse rinviata alla contrattazione collettiva. In tal modo non si è dato adito alla soluzione più appropriata ovvero che la definizione del ruolo – del docente esperto o stabilmente incentivato poco cambia – rimanesse saldamente riserva di legge.
Una riforma già timida, dalle ricadute troppo lontane nel tempo ed esigua nel numero dei docenti coinvolti è stata così riportata nell’alveo della contrattazione senza incidere efficacemente sulla necessità di istituire una vera carriera dei docenti disgiunta dall’insegnamento.
Non si dà spazio, dunque, alla concretizzazione normativa di ciò che già accade effettivamente nelle scuole. Tanti docenti, infatti, collaborano con i dirigenti su aspetti di natura gestionale e organizzativa senza riconoscimenti adeguati in termini di retribuzione (è ben nota l’esiguità del FIS) e di reale avanzamento di carriera.
Proprio l’incremento retributivo previsto dal decreto in commento, acquisito come incentivazione a seguito della frequenza con esito positivo di tre percorsi formativi di durata triennale, avrebbe dovuto essere agganciato, al contrario, a quell’assunzione di responsabilità organizzative che connota il middle management. Il legislatore ha dunque mantenuto un assetto incentivante legato esclusivamente alla formazione ex ante senza, peraltro, prevedere elementi di valutazione calibrati sulle pratiche d’aula realmente effettuate.
Infatti non basta utilizzare la parola “carriera” per introdurne un vero sviluppo, come espressamente richiesto nel PNRR che prevede “un nuovo modello di reclutamento dei docenti, collegato a un ripensamento della loro formazione iniziale e lungo tutto l’arco della loro carriera […] Le misure introdurranno requisiti più rigorosi per l’accesso all’insegnamento, un quadro di mobilità più efficace per gli insegnanti che ne limiti l’eccessiva mobilità, e un chiaro collegamento tra la progressione di carriera, la valutazione delle prestazioni e lo sviluppo professionale continuo”.
Inoltre non si sana il vulnus dell’assenza di una progressione di carriera non esclusivamente legata agli scatti di anzianità prevedendo, ai fini del riconoscimento anche retributivo del personale, una sola posizione, quella del docente stabilmente incentivato, e non almeno quattro. Tutto questo, va ricordato, su una prospettiva temporale oltremodo lunga che implica una valutazione di impatto disancorata dalla formazione e dagli inevitabilmente mutati scenari della scuola a distanza di dieci anni dall’introduzione della norma.
Infine, ma non certo per importanza, va evidenziata un’altra rilevante criticità: non si è voluto attribuire al dirigente scolastico, titolare del potere gestionale, la competenza al riconoscimento del docente stabilmente incentivato disattendendo, così, le sue prerogative definite dall’art. 25 del D.lgs. 165/2001. Si tratta di un’operazione con uno sguardo al passato che tradisce un atteggiamento di ostilità nei confronti della cultura dell’efficacia del servizio. Quell’efficacia che proprio il dirigente è tenuto a garantire grazie alle competenze che la legge gli attribuisce e ai connessi autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane.
Le premesse della norma erano buone ma gli sviluppi in corso lasciano sperare ben poco. Auspichiamo che il nuovo Parlamento torni sulla materia ricollocandola nell’alveo della legge e tenendo nella dovuta considerazione le esigenze di una scuola che necessita da subito di docenti meglio motivati, meglio formati e meglio retribuiti.